Sono fierissimo dei miei studi, delle mie tante letture, di quel bisogno di conoscenza che mi fa sempre svegliare con uno stimolo nuovo. Ma ho sempre avuto in mente la differenza tra ‘imparare qualcosa’ e ‘imparare a fare qualcosa’. E ce l’ho avuta in mente perché io sono il figlio ‘inetto manualmente’ di un padre formidabile artista degli oggetti, che riparava, progettava e spesso costruiva, a casa, in particolare nell’organizzatissimo laboratorio che aveva in cantina. Così io, nelle lezioni di applicazioni tecniche, alle medie (chissà se si fanno ancora…), facevo sempre un figurone, portando manufatti prodotti, clandestinamente, dalle sue mani. Per non parlare del negozio di filati di mia nonna, in via Barbaroux, dove passavo lunghe ore al pomeriggio. Entravano e uscivano, con modi svelti e attitudine competente, eserciti di sartine che poi sarebbero tornate nei loro piccoli atelier ‘a fare’. Ecco, da questo rapporto controverso con la manualità ho imparato un rispetto assoluto per chi passa la propria vita usando le proprie mani come strumenti, in quel territorio a metà strada tra la creatività e l’arte applicata, confezionando oggetti (cappelli, borse, cornici, sciarpe, camicie, ceramiche, lampade, bambole, soprammobili, cinture, legature di libri e chissà quant’altro…) che sono pezzi unici, e in quanto tali inimitabili. Torino – città borghese, militare, ordinata e operosa – ha nel suo DNA questa dimensione del lavoro che sintetizza la catena produttiva: si crea, si progetta, si realizza e si vende, aprendo e chiudendo il cerchio senza troppe alchimie. Il prezzo non dipende da logiche finanziarie, ma dal tempo necessario a produrre, dalle materie prime impiegate e – ci mancherebbe altro – dal talento di ogni singolo artigiano. Per usare un termine contemporaneo, particolarmente amato anche a sproposito, l’artigianato è una attività ‘sostenibile’, in armonia con l’ambiente, la cultura dei luoghi (il genius loci), la tradizione e la salute. Si, la salute, quella che si conquista quando si fa qualcosa che si ama, destinata a qualcuno che la ami a sua volta, quando si da spazio alle proprie idee e alla propria creatività. Purtroppo l’artigianato non ha lo spazio che meriterebbe in uno società che gli stakeholder vorrebbero esclusivamente tecno, misurabile attraverso PIL e fatturati, imprigionata nella logica della produzione a ogni costo e in ogni senso, dove tutto è una app, un chip, uno smart, un virtuale invadente quanto molto spesso noioso. L’artigianato non solo non si insegna a scuola, ma neanche si nomina, non è una opzione professionale meritevole di essere valorizzata. Così avremo una generazione di figli che, se manca la luce, sprofondano nella preistoria, che pensano che tutto sia ‘usa e getta’, tanto lo fabbricano in Cina e la Cina è lontana. Invece dobbiamo partire da un concetto semplice e intramontabile: chi non sa prendersi cura delle cose non sarà neanche in grado di prendersi cura delle persone. Io, quando compro un oggetto artigianale, so di avere tra le mani qualcosa di prezioso, qualcosa che è stato fatto per me, qualcosa che è nato ‘uno alla volta’, proprio come gli esseri umani. Poi, oltre all’oggetto, ci sono anche le parole, il racconto, la filosofia, che l’autore, se lo interroghi curioso, ti sa trasmettere. Quando entro nelle case di chi non conosco ancora mi guardo intorno e cerco. Ci sono due cose che devono sempre esserci: i libri e gli abitanti immobili che hanno qualcosa da raccontarmi, una maschera fatta a Venezia, una ceramica comprata in bottega, una cornice di legno intagliato, un pupazzo colorato e dipinto a mano… Se vedo solo il grigio e il nero del design anonimo, che circondano il vuoto, capisco che quella è una visita sprecata. Nella mia Torino ho imparato a riconoscere due tipologie di artigiano: quello anziano, tante volte senza eredi, che porta avanti una attività che rischia di andarsene con lui, e il giovane, l’eroe in controtendenza di un piano di sviluppo che non lo prevedeva. Ma sono proprio questi ragazzi che inducono all’ottimismo: hanno fatto una scelta diversa, hanno il loro talento nelle mani, vogliono vivere di ciò che sanno creare e produrre, non mi vendono solo un oggetto ma un’idea, un progetto personale, la grande bellezza delle piccole cose. Bene, ho finito. Mi guardo intorno e sorrido perché la mia casa bene mi rappresenta: tanti libri da dire persino troppi (ma sono mai troppi i libri?) e tanti oggetti che hanno tutti una storia, torinesi e del mondo, li hanno fatti tante mani, sbucano ovunque e meritano sempre pensieri belli. Li amano anche i miei gatti, che, come tutte le creature incantate, sanno scegliere, li annusano, ci si strusciano contro, sembrano proprio riconoscerli. Nel mio spazio ‘invaso’ sono sempre in buona compagnia. Auguro lo stesso anche a voi.
Guido Barosio
Giornalista, scrittore e viaggiatore. Dirige Il Mondo di Pannunzio, Il Piemonte e, da oltre vent’anni, Torino Magazine. Ha pubblicato diversi libri di viaggio, con numerose coedizioni internazionali, ed ha realizzato oltre duecento reportage raccontando più di cento destinazioni in Italia e nel mondo. Si dedica a progetti formativi ed è direttore del primo master nazionale dedicato alla comunicazione turistica ed enogastronomica. Lo trovate www.guidobarosio.it